Gli studi della Regione Veneto sulla popolazione esposta ai PFAS non sono scientificamente attendibili

pfasimmagineIl comitato direttivo ISDE Veneto ha esaminato la documentazione presentata durante la  conferenza stampa del 22.7.2016 in cui sono stati esposti i risultati degli studi condotti dal
Sistema Epidemiologico Regionale (SER) e dal Registro Tumori del Veneto (RTV) per
valutare lo stato di salute della popolazione esposta alla contaminazione da PFAS. Nel
comunicato stampa N° 1006 del 22/07/2016 della Regione Veneto si legge che: “ Sul piano
oncologico ed epidemiologico, l’inquinamento da sostanze perfluoro alchiliche (PFAS) emerso
nel 2013 in una vasta area del Veneto, ma in atto presumibilmente da almeno 20 anni, non ha
portato al momento a rilevare un peggioramento del trend di salute dei cittadini nei territori
maggiormente esposti.” Del tutto analoga la valutazione dei risultati dello studio presentato
dal Registro Tumori il 28 ottobre, riguardante la popolazione dei 21 comuni definiti come
esposti a PFAS :“In conclusione, tutte le diverse tipologie di analisi effettuate non documentano
una maggiore incidenza di tumori maligni nelle popolazioni considerate, rispetto ai valori medi
regionali”( Comunicato nr. 1479-2016).
Non condividiamo le conclusioni del SER e del RTV per i seguenti motivi.
1. I risultati dello studio di mortalità 2007 – 2014 del Sistema Epidemiologico Regionale
(SER), pur con i limiti dell’estensione temporale di soli otto anni, dimostrano un
aumento di mortalità per alcune malattie non neoplastiche nelle zone contaminate:
cardiopatie ischemiche sia negli uomini che nelle donne, rispettivamente +21% e
+11%; malattie cerebrovascolari + 19% nei maschi; diabete mellito (+ 25%) e
Alzheimer (+14%) nelle donne. Lo stesso studio del SER rileva inoltre nella
popolazione dei 21 Comuni più inquinati, in entrambi i sessi, una prevalenza
significativamente maggiore del riferimento regionale di dislipidemie e ipotiroidismo.
Queste sono malattie la cui eziopatogenesi è legata anche ai meccanismi d’azione
degli interferenti endocrini, categoria di sostanze chimiche cui appartengono i PFAS.
Lo studio SER ha sostanzialmente confermato i risultati della precedente indagine
ISDE – ENEA che, analizzando i dati di mortalità di un periodo molto più lungo, 1980-
2009, aveva evidenziato un eccesso statisticamente significativo di mortalità in
entrambi i sessi per ogni causa e per diabete mellito, infarto acuto del miocardio e
malattie cerebrovascolari; nelle femmine, aveva rilevato anche un eccesso
statisticamente significativo di mortalità per malattia di Alzheimer e cancro del rene.
Non comprendiamo, quindi, come sia possibile, da una parte, affermare che “non si sia
rilevato un peggioramento del trend di salute dei cittadini nei territori maggiormente
esposti” e, dall’altra, attribuire a stili di vita l’eccesso di mortalità osservato, senza
peraltro addurre alcuna prova a sostegno di tale affermazione che costituisce,
allo stato attuale, una mera opinione personale dell’autore dello studio; è
d’altronde ben difficile ipotizzare che proprio nelle aree contaminate le persone
abbiano uno stile di vita significativamente peggiore delle popolazioni limitrofe.

Probabilmente il trend non è aumentato perché lo stato della salute nei territori
con l’acqua potabile e la catena alimentare contaminate per decenni dai PFAS è
da sempre peggiore rispetto alle altre aree della regione e, in ogni caso, il SER non
misura alcun trend. Questi risultati, tutt’altro che tranquillizzanti, imporrebbero, in
ossequio al principio di precauzione sancito dalla normativa europea, l’adozione
immediata di provvedimenti atti a:
a. eliminare l’esposizione della popolazione ai PFAS, quali l’approvvigionamento
alternativo di acqua potabile (ovviamente garantendo il rifornimento di acqua
destinata al consumo umano non inquinata), la sospensione della produzione
e commercializzazione di alimenti contaminati, e
b. intraprendere, affidandoli ad esperti indipendenti, studi epidemiologici di tipo
analitico. Entrambe le richieste sono state più volte avanzate da ISDE alle
autorità regionali.
2. Un aspetto della questione, per nulla chiaro ma veramente importante, riguarda la
definizione dei comuni “esposti “: mentre nel documento tecnico allegato alla delibera
1517/2015 la popolazione esposta (circa 270.000 soggetti) era stata individuata
come residente nei comuni in cui si era verificato in rete o in pozzi privati almeno un
superamento dei limiti di performance per PFOA, PFOS o altri PFAS (PFOA >500 ng/L,
PFOS >30 ng/L, altri PFAS >500 ng/L), la nota 203887 del 24.05.2016 del Direttore
Generale Area Sanità e Sociale individua 21 comuni sulla base della ricostruzione
della filiera acquedottistica, per una popolazione di 127.000 soggetti. Nella lista dei
comuni entrano così tra gli esposti Alonte e Asigliano che nel 2013 non
presentavano alcun superamento dei limiti e ne escono molti altri che invece li
avevano superati, come, ad esempio, Vicenza che aveva livelli altissimi nel luglio
2013 ( 1600 ng/L di PFOA, 80 di PFOS e 1800 di altri PFAS). E’ grave a nostro
parere che non siano resi pubblici i criteri utilizzati per questa nuova definizione dei
comuni esposti.
3. Per quanto riguarda le malattie neoplastiche, osserviamo che:
a. Esiste un problema prioritario di affidabilità dei dati del Registro Tumori
poiché i dati sicuramente certificati dalla IARC (Agenzia Internazionale di
Ricerca sul Cancro – OMS) si fermano al 2006. E’ quindi indispensabile sapere
se i dati presentati alle conferenze stampa sono stati sottoposti alla IARC, come
aveva dichiarato il responsabile del registro, e se sono stati accreditati.
Presentare i dati di un solo anno e relativi a una piccola popolazione è al di
fuori di qualsiasi regola internazionale e nazionale dei registri e francamente
dubitiamo sia stato fatto su dati validati dalla IARC.

b. Esiste anche un problema di credibilità scientifica dei criteri utilizzati nel
disegno dello studio sui tumori nella “zona rossa”. Infatti, fra tutte le molecole
del gruppo PFAS, solo il PFOA è stato valutato dalla IARC come “possibile
cancerogeno” per testicolo e rene. E dei 21 Comuni “esposti”, due, Alonte e
Asigliano, nel 2103 non presentavano inquinamento superiore ai limiti stabiliti
dall’ISS per nessuna categoria di PFAS; in altri tre (Boschi sant’Anna, Minerbe
e Roveredo di Guà), i limiti erano superati solo dal PFOS. Gli effetti
cancerogeni dei PFAS sono stati quindi studiati su una popolazione in parte
non esposta a sostanze classificate come cancerogene. Sorprendentemente,
inoltre, per i 19 casi di cancro del testicolo identificati sono riportati i tassi di
incidenza in ognuno dei 21 comuni, quando è ovvio che in almeno due
municipalità non possono esserci casi di cancro testicolare. Inoltre, nell’analisi
dell’ASL 5 (reperibile nel sito RTV), risulta che il tasso di incidenza del cancro
al testicolo è decisamente più alto del riferimento regionale: 11.3 su 100.000
rispetto a 7.1. E nella popolazione maschile di circa 20.000 soggetti residenti
nella zona sud dell’ASL 6 sono stati rilevati 4 casi, che portano a un tasso
ancora più alto, di circa 20 su 100.000. Ci risulta problematico, pertanto,
condividere in questa situazione la dichiarazione attribuita al prof. Rugge, di
essere “confidente in questi dati fino alle estreme conseguenze” e le conclusioni
identiche riportate in entrambi gli studi regionali : “… da nessuna delle analisi
effettuate è emersa alcuna evidenza di una maggiore incidenza di tumori a
carico delle popolazioni esposte a PFAS, sia per le sedi oggetto (testicolo e
reni) di particolare attenzione che per tutti i tumori.”

4. Molte perplessità suscita infine, a nostro parere, la decisione della regione Veneto di
finanziare con 100-150 milioni di euro l’anno per dieci anni, la “cosiddetta presa in
carico “di parte della popolazione esposta che verrà sottoposta annualmente, per i
prossimi dieci anni a visite mediche periodiche ed analisi di laboratorio.” Premesso
che i dettagli “della presa in carico” non sono stati finora pubblicati, la decisione di
sottoporre oltre 100.000 persone ad analisi di laboratorio aspecifiche, senza
contemporaneamente dosare i PFAS nel sangue dei partecipanti, non permetterà di
stabilire eventuali correlazioni fra le patologie multifattoriali PFAS-associate né nel
singolo caso né nell’intera popolazione studiata. Non si comprende perché “dalla
presa in carico” della popolazione sarebbero esclusi i bambini sotto i 14 anni e gli
adulti sopra i 65 anni, le donne gravide e i neonati, come già avvenuto per lo studio
sul biomonitoraggio umano. Sembra quasi che, per le autorità regionali e statali,
le fasce più suscettibili agli effetti tossici dei PFAS, non esistano o non siano
meritevoli di attenzione. E quand’anche, fra dieci o più anni, fosse stabilita
un’eventuale correlazione nei singoli individui fra patologie e livelli ematici di PFAS,
come giustificheranno le autorità la decisione di aver lasciato ampie fasce della
popolazione veneta esposte per un decennio a concentrazioni elevatissime di PFAS?
A nostro avviso gli obiettivi dello studio regionale potrebbero ugualmente essere perseguiti con un’indagine condotta mediante intervista telefonica dei partecipanti da
ripetere annualmente, con notevole risparmio di risorse economiche.

In conclusione, la Regione Veneto con le sue strutture scientifiche (SER, Registro Tumori e
altri registri), non appare in grado di affrontare con credibilità una situazione caratterizzata
da notevole incertezza scientifica. Riteniamo, così come è stato fatto negli USA in occasione
dell’inquinamento prodotto dalla DuPont, che si debba, attraverso un bando pubblico di
ricerca, affidare ad esperti indipendenti la conduzione di studi analitici sulla popolazione
esposta che affrontino i possibili molteplici effetti avversi di queste sostanze e chiariscano il
ruolo causale di queste sostanze sulle patologie già rilevate negli studi descrittivi finora
condotti.

Vicenza 16/12/16